“The Square” (2017) è un film del regista svedese Ruben Ostlund, vincitore della Palma d’oro al Festival di Cannes del medesimo anno. Un film che ha fatto tanto parlare di sé e di cui si è tornati a discutere dopo che Ostlund ha vinto la Palma d’oro anche quest’anno con un film che deve ancora uscire nelle sale, “Triangle of Sadness”.
“The Square” ruota intorno alla figura di Christian (Claes Bang) curatore di un museo di arte contemporanea. Il film si snoda intorno alla vita del museo e a quella personale di Christian, e soprattutto attorno alla campagna promozionale che sta lanciando per un’imminente mostra che vede al centro l’opera d’arte “The Square“, una porzione di terreno quadrata 4×4 metri contrassegnata davanti al museo che, nelle intenzioni dell’artista, dovrebbe essere uno spazio di lealtà e condivisione (uno spazio in cui se uno vuole parlare per trenta minuti dei suoi problemi personali viene ascoltato, per esempio).
Tuttavia, la campagna promozionale lanciata per la mostra, a cui Christian negligentemente non prende parte, scandalizza la stampa e l’opinione pubblica mettendo in difficoltà il museo e la vita privata di Christian che già è resa turbolenta da altri eventi (un furto che ha subito e una vita sentimentale complicata).

Intorno a questi filoni si articola il film di Ostlund in cui lo spettatore è non solo spettatore del film, ma anche del museo stesso, come in un gioco di scatole cinesi. Tutto quello che appare sullo schermo ci appare come profondamente distante: non c’è mai una reale compartecipazione emotiva. Ma questo è la volontà di Ostlund: rendere i personaggi distanti da noi e fare quindi ricadere su di loro il nostro (e il suo) sguardo moralizzante.
Anche il personaggio di Christian dalle prime battute ci sembra sicuro di sé e rassicurante, poi, col passare dei minuti, diventa sempre più fragile e in balia degli eventi non riuscendo più a controllarne lo svolgimento e venendone alla fine travolto. Una carriera rovinata da una piccola disattenzione, ci dice il regista sottotraccia; questo è uno dei moniti: basta poco per fare crollare tutto un castello di carte costruito con fatica negli anni.
Oltre alla storia in sé, poi, c’è lo stile di Ostlund. Un tipo di cinema sempre a metà tra commedia e dramma su cui ricade uno spesso velo di grottesco. Durante la visione lo spettatore è assalito da un senso di straniamento e spaesamento: eclatante, in questo senso, la scena con l’uomo-scimmia che si muove fra i tavoli e violenta quasi una ragazza.
Le scelte registiche, poi, sono molto pulite e molto interessanti: certi quadri ricordano vivamente alcuni lavori di Roy Andersson per la loro composizione, anche se i ritmi narrativi sono di tutt’altro tipo.
In generale è un film che funziona benissimo per un’ora e mezza, ma che perde un po’ il bandolo della matassa nell’ultima ora di visione in cui sembra mancare quel collante tra le parti presente in precedenza. Anche al finale sembra mancare qualcosa per mettere veramente un punto alla vicenda.
E’ un finale, appunto, che lascia protagonista e pubblico spaesati. E, forse, a ben vedere, era proprio questo l’obiettivo di Ostlund.
Sicuramente un film che merita di essere visto e che non è facile afferrare. Potrebbe essere necessaria una seconda visione. Di sicuro, quello che rimane è uno sguardo molto tranciante e torvo su una società che ha mille problemi e nasconde al suo interno tante pieghe irrisolte.
Aspettiamo “Triangle of Sadness” per capire se il regista svedese ha deciso di mantenere questa linea di tendenza.
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