“Broken Flowers” è un film del 2015 di Jim Jarmusch, vincitore del Grand Prix speciale della giuria al Festival di Cannes dello stesso anno.
Non è la solita produzione americana figlia di un sistema che tende a rilasciare prodotti standard e preconfezionati, troppo spesso simili o uguali fra loro. Il film di Jarmusch si distingue per originalità, riuscita compositiva e un esito che si smarca dalla richiesta media.
La storia raccontata è quella di Don (Bill Murray), scapolo convinto, che a un tratto si vede arrivare una lettera anonima in cui una sua ex fidanzata confessa di aver avuto un figlio da lui circa 20 anni prima e che ora pare abbia intrapreso un viaggio per cercare il padre. Don vive una vita monotona, priva di stimoli e sull’orlo della depressione: la notizia superficialmente sembra non sfiorarlo. Poi, convinto dall’intraprendenza dell’amico Winston che organizza tutto per lui, decide di andare in giro per l’America a trovare le sue ex fidanzate, quelle che potrebbero essere le madri del presunto figlio.
La sua ricerca ruota attorno alla lettera ricevuta, scritta con inchiostro rosso su carta rosa. Ecco perché da ognuna di loro si presenta con un mazzo di fiori rosa e cerca dentro le case indizi che possano fargli intuire chi sia l’autrice della lettera ricevuta. In questo suo personale road trip incontra tanti tipi di donna diverse con cui per poche ore o attimi ripercorre i tempi passati e cerca di capire se sia la donna che cerca. Raccoglie indizi qua e là, trova delle coincidenze, ma non arriva a capire da chi possa essere arrivata quella lettera.

A questo punto, per capire fino in fondo la forza del film, è necessario uno spoiler (chi lo voglia evitare, salti questo paragrafo). Allora torna a casa, ancora più sfiduciato rispetto a quando era partito. A questo punto ci si aspetterebbe un finale consolatorio, insomma il classico happy ending, ma niente di tutto ciò. Don vede un ragazzo che è di passaggio e che sembra cercare qualcosa alla tavola calda del suo paese: gli offre un panino e cerca di entrarci in confidenza. Ma quando gli chiede se sia suo figlio, il ragazzo scappa via spiazzato da quella strana richiesta. E il film finisce così: con un primo piano stretto su Don e la camera che gira intorno a lui che è fermo in mezzo alla strada, smarrito e profondamente solo.
Don rimane un uomo solo con gli anni che intanto passano e la sua vita che rimane sempre più vuota. La presunta paternità che gli era capitata fra le mani, anche se tenta di nasconderlo, è per lui un motivo per poter dare un senso alla sua vita, o almeno una nuova scossa emotiva. Il suo viaggio per l’America asseconda proprio la ricerca di un senso da dare alla sua vita. Tuttavia, il suo sguardo alla fine del film è lo stesso di quello delle prime sequenze. Vuoto, sfiduciato e rassegnato.

Questo personaggio è interpretato magistralmente da Bill Murray che giganteggia in questa pellicola. Non scopriamo certo ora il valore dell’attore, ma la sua capacità di riuscire ad essere così efficace in questi ruoli drammatici (vedere a proposito “Lost in Translation“) come in quelli comici, la possiedono in pochi. Il suo sguardo disilluso è di una intensità dirompente e vale da solo il prezzo del biglietto.
Allo stesso modo la regia di Jarmusch è ottima. Il regista non ha paura di utilizzare dei tempi narrativi non consueti per il canonico cinema americano, molto più simili a una pellicola europea. Jarmusch, infatti, segue le azioni del suo protagonista con la stessa attitudine compassata e sfiduciata che contraddistingue l’andatura del protagonista. In questo senso vanno i tanti silenzi, i dialoghi scarnificati e i “cut” tra una scena e l’altra che sfociano nel nero creando quindi una piccola pausa narrativa.
E’ difficile trovare una sbavatura in questo lavoro. Alla fine della visione, nonostante la poca empatia del personaggio, ci si sente molto vicini a Don e come lui avvolti da una piccola spirale di solitudine: consapevoli di come possa non esistere sempre un lieto fine.
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