Massimo Troisi
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“Buon compleanno Massimo”: non ci resta che ridere

“Massimo Troisi avrebbe settant’anni, eppure sono quasi trent’anni che è andato via. Ma è realmente andato via?”. Con questo interrogativo, posto dallo scrittore Maurizio De Giovanni, si apre il documentario Buon compleanno Massimo, realizzato per “festeggiare” i settant’anni che Troisi avrebbe compiuto il 19 febbraio di quest’anno.

Sulle note di Eugenio Bennato, si susseguono immagini di scorci di Napoli, di murales raffiguranti l’oro di Napoli (Totò, Troisi e Pino Daniele), e l’omaggio a Il postino, proprio in piazza Massimo Troisi, a San Giorgio a Cremano – città natale del regista partenopeo.

Poi, alcune immagini inedite di Troisi bambino e ragazzo aprono la strada all’intervista a Rosaria Troisi, che racconta di come Massimo volesse seguire le orme del padre e diventare un calciatore di successo. Suo papà Alfredo, infatti, era un giocatore della Sangiorgese, e Massimo – che pure era bravo a giocare – “avrebbe avuto più piacere a vincere la Coppa dei Campioni che l’Oscar“. Nella prima adolescenza, però, sviluppò una grave degenerazione della valvola mitrale, e dovette lasciar perdere questo suo sogno. Nonostante questo, “Massimo era un mite“: questo suo “problema” l’ha fatto crescere, l’ha fatto diventare il Massimo che tutti conosciamo.

Anche perché, grazie a questo suo dover abbandonare il calcio, si è avvicinato al teatro. Troisi ha infatti iniziato la sua “carriera” attoriale in parrocchia: “quando siamo andati là, nella sala della parrocchia a vedere la rappresentazione, siamo rimasti sbalorditi e mio padre mi diede di gomito e disse vicino a me «ma a do’ è sciut chist?»”. Così Rosaria ricorda, emozionata, la prima volta che vide Massimo recitare, ovvero l’esatto momento in cui capirono che Massimo non avrebbe fatto di certo il geometra.

“Non credo sia una coincidenza che nella Napoli di fine anni Settanta, tutti insieme, in pochi chilometri, ci sono delle personalità: Roberto De Simone e la Nuova Compagnia di Canto Popolare, Bennato, Pino Daniele, Gragnaniello. Tutto un movimento di pensiero che, più che creare qualcosa di nuovo, aveva la necessità di scassare quello che c’era prima”. Enzo Decaro cerca di spiegare, così come fanno anche Maurizio De Giovanni e Roberto Vecchioni, il clima di fermento che Napoli viveva in quegli anni. “Era un momento di attesa di qualcosa di bello che potesse arrivare“, un momento carico di speranza, di volontà di fare qualcosa, di voglia di riuscire. E infatti, Massimo stesso dice di aver vissuto, in quegli anni, un senso di rassegnazione, dovuto al fatto di  vivere in provincia, e di aver fondato un teatrino off in un garage. 

Massimo Troisi

Certo è che dopo il disastroso terremoto del 1980 cambia un po’ tutto. Ma, grazie anche a questa nuova “spinta” a rinascere, si creano molti laboratori di nuova arte: si fa teatro nei sottoscala, si dipinge, si scolpisce. Molte forme artistiche della “nuova” Napoli nascono proprio allora. “Era proprio una necessità di una giovane generazione di creare una forte discontinuità, non solo col passato, ma anche col presente che li circondava” conclude Decaro.

Nel 1977 nasce I Saraceni, trio formato da Massimo Troisi, Enzo Decaro e Lello Arena: Marcello Casco, presso il teatro La Chanson di Roma, affida loro un palco di modestissime dimensioni ma che ha permesso loro di debuttare nel cabaret e di diventare il famoso trio La Smorfia. Hanno calcato i palchi più piccoli d’Italia, si sono esibiti nelle feste di paese, ma sono arrivati – grazie alla loro genialità – sul palco più grande di tutti: la televisione.

Il trio partenopeo riscosse da subito grande successo, al punto di catturare l’interesse di Pippo Baudo, che li volle fortemente nel suo Luna Park, programma che andava in onda il sabato sera su Rai 1: “La Smorfia” ebbe così accesso ad una platea sconfinata. “Per noi di questa città, per noi ragazzi di questa città, fu straordinariamente un motivo d’orgoglio vedere tre ragazzi come noi che parlavano il nostro linguaggio, che si muovevano nella stessa maniera, che interagivano fra loro come noi interagivamo con i nostri amici, diventare così straordinariamente popolari”. Con queste parole, Maurizio De Giovanni ricorda quegli anni, quasi a voler sottolineare ancora una volta la bellezza di quel clima di “rivalsa” che si respirava a Napoli in quel periodo: non solo c’era la voglia di farcela, ma vedere ragazzi – che fino al giorno prima erano “comuni mortali” – che riescono nel loro intento, faceva ancora più ben sperare di potercela davvero fare.

Nonostante il percorso straordinario del trio partenopeo, conosciuti ormai a livello nazionale (e non solo), arrivò un punto di fine. “Ci fu sicuramente un’esigenza da parte di Massimo, anche proprio personale dell’uomo, di andare a cercare, a sperimentare delle storie che si confrontassero anche con l’universo femminile. E lì, con tutta la buona volontà, né io né Lello potevamo aiutarlo molto”. Decaro ce lo dice quasi ridendo, ma possiamo intuire quanto male abbia fatto questa decisione.

Ma quella voglia di sperimentare altri linguaggi effettivamente ribolliva in Massimo: decise infatti di buttarsi nel mondo del cinema. Nel 1981 ci fu la prima proiezione di Ricomincio da tre, prima opera del Troisi regista: “all’inizio il film è un po’ scolastico, cioè ha i campi, i controcampi… poi però mi impadronivo del mezzo e man mano… infatti stanno gli ultimi sette secondi del film che sono eccezionali. È un capolavoro!”.

Il film è davvero un capolavoro e, com’è noto, fu un grandissimo successo: era un film napoletano certo, ma diverso da tutto ciò che era stato fatto fino a quel momento. E infatti fu subito replicato su scala nazionale. 

Massimo ha avuto sempre un umorismo complesso, complicato e che veniva sempre da un ragionamento. Non era mai una battuta fine a se stessa, ma era sempre un qualcosa che veniva da un pensiero. E quel pensiero ti permette di ricordare a memoria le battute di Troisi, perché vengono sempre da un ragionamento, che è paradossale per certi versi ma che è una lente d’ingrandimento sulla società. Una lente d’ingrandimento su quello che siamo. Lui ti metteva questa lente d’ingrandimento davanti agli occhi e tu vedevi il mondo deformato, e ne ridevi tanto”. Massimiliano Gallo esprime benissimo con queste parole quella che era la poetica, se vogliamo, dei film di Troisi.

Massimo Troisi piaceva a tutti; piace a tutti. Ha costretto l’Italia intera a sforzarsi di capire il suo napoletano, senza scendere a patti. Il napoletano – per Massimo – non era solo un dialetto, ma un modo di pensare, e di agire. Come dice Renzo Arbore: “Massimo ha fatto la rivoluzione”. Ed è per questo che il suo umorismo è ancora “nuovo”.

Una chicca inaspettata ce la racconta Ferzan Özpetek. Il regista turco era arrivato in Italia da pochi anni e si propose come aiuto-regista volontario di Troisi durante il set di Scusate il ritardo (1983): all’inizio il suo compito era quello di andare tutti i pomeriggi al bar a prendere un thè per Massimo e portarglielo. Özpetek ci racconta poi che, data la difficoltà di pronunciare il suo nome, Massimo gli chiese di poterlo chiamare “Verza” – come il calciatore, diceva lui –, e così fu.

Ci sono tanti aneddoti che vengono svelati in questo documentario, tante chicche inedite. Tanti film girati, collaborazioni fondamentali (come quella con Ettore Scola in Che Ora è, Splendor e Il viaggio di Capitan Fracassa) e tanti ricordi delle persone che lo hanno conosciuto o che ci hanno lavorato. E, in effetti, potrei parlare e scrivere davvero per ore, forse per giorni, di questo documentario e di Massimo Troisi.

Solo due ultimi appunti. Impossibile non notare la mancanza di due figure fondamentali nella vita e nella carriera di Massimo: Pino Daniele, suo carissimo amico di vita e di musica, e Lello Arena (forse perché impegnato nel quasi contemporaneo – e rivale – documentario Il mio amico Massimo ?).

Di grande impatto ed emozione sicuramente tutta l’ultima parte inerente a Il postino, ultima fatica di Massimo. Il postino è stata davvero una grande impresa nella carriera, ma anche nella vita, di Troisi. “Lui portava i segni del malessere e della malattia sul volto. […] Massimo Troisi diventò, con Il postino, un meraviglioso attore drammatico, mantenendo tutta la potenza della sua vis comica e della sua capacità di far sorridere”.

E allora se – come diceva il suo Mario Ruoppolo – la poesia non appartiene a chi la scrive, ma a chi la usa, mai come oggi il cinema di Troisi appartiene a tutti noi: la sua arte del far ridere con l’istinto, le immagini e il cuore, è un vero e proprio antidoto indispensabile per (soprav)vivere all’affanno quotidiano. Per cui, per chiudere il cerchio con la domanda iniziale di Maurizio De Giovanni, Massimo è ancora qui, e lo resterà per sempre.

Ciao Massimo, non ci resta che ridere!

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