Padre padrone è un film del 1977 dei fratelli Paolo e Vittorio Taviani, tratto dall’omonimo racconto di Gavino Ledda, protagonista della storia.
Nella Sardegna degli anni Quaranta del Novecento Gavino Ledda è un bambino che è costretto dal padre Efisio a lasciare la scuola e a praticare fin da piccolo la dura vita del pastore. Efisio è un padre duro, burbero e violento: un cosiddetto “padre padrone” che esercita sul figlio una giurisdizione assoluta.
Gavino cresce quindi da analfabeta in questa realtà primitiva e atavica lontano dal mondo, finché il padre decide di volere per lui la carriera militare. Da quel momento però Gavino, ormai ventenne, capisce di dover imparare a leggere e scrivere e, in generale, apprendere la lingua italiana. La sua volontà e la sua passione di imparare la lingua e la la cultura italiana aumentano costantemente finché lo scontro con l’ingombrante e oppressiva figura paterna diventa inevitabile.

Secondo molti il film in questione è il capolavoro dei Taviani; non lo è per chi scrive, che ritiene superiori titoli come I sovversivi e Allonsanfan. In ogni caso Padre padrone è ovviamente un film che ha funto da spartiacque nella storia del cinema italiano.
Un film la cui storia è molto particolare. La pellicola, infatti, nasce come sceneggiato televisivo della RAI – e questo aspetto si vede decisamente -, ma viene a sorpresa invitato a partecipare in concorso al Festival di Cannes, cosa anomala per un film pensato per la televisione.
Come se non bastasse, il film vince anche a sorpresa la Palma d’oro dell’edizione. Anche se, come poi è stato acclarato, nell’assegnazione del premio ha avuto un ruolo decisivo Roberto Rossellini, presidente di giuria quell’anno.
In ogni caso il film ebbe una risonanza impensabile e lanciò i Taviani sul palcoscenico internazionale. Scorsese dichiarò di averlo visto più volte, mentre il maestro giapponese Akira Kurosawa lo annovera addirittura nel suo libro-memoir come uno dei suoi film preferiti.
Ciò che è certo è che Padre padrone è un lavoro di grande impatto visivo e sonoro. I Taviani, infatti, recuperano un mondo selvaggio e primordiale come quello della Sardegna del primo Novecento con tutta la sua durezza. Allo spettatore non viene risparmiato nulla in una sequela di scene estremamente reali che aumentano la drammaticità di quello che è mostrato sullo schermo.
Ovvero l’infanzia e l’adolescenza distrutte di un bambino che deve sottostare al volere insindacabile di un padre oppressore e carnefice. La sottomissione a cui è costretto Gavino Ledda mette in difficoltà lo spettatore per tutta la cruda prima parte del film; poi il pubblico, insieme al protagonista, intraprende l’arduo percorso di emancipazione dall’egida paterna non venendo meno a tutto quello di doloroso che l’atto comporta.

La regia dei Taviani è molto semplice e lineare: non fa altro che sfruttare la drammaticità della storia amplificandone i contorni con uso sapiente del sonoro. Di grande impatto la prova attoriale di Omero Antonutti, ovvero il padre Efisio Ledda: ha lo sguardo spietato e impietoso del violento oppressore.
Interessante, poi, la scelta di iniziare e chiudere la pellicola con una rottura della quarta parete mettendo sullo schermo il vero Gavino Ledda che impartisce quasi delle indicazioni registiche agli attori.
A ben vedere, poi, si può dire che la pellicola abbia molto da spartire col neorealismo. E’ vero che quella stagione cinematografica allora era già ampiamente tramontata, ma la storia narrata e le scelte di estremo realismo prese per la realizzazione fanno decisamente tornare la mente a quella stagione artistica – magari aggiungendo a quegli stilemi anche una certa crudezza.
Padre padrone è quindi un film che ha fatto da spartiacque in Italia. Un film che, anche senza gridare al capolavoro, ha lasciato il segno nell’immaginario cinematografico e non.
Rispondi