“I sovversivi” (1967) è il primo film interamente diretto dai fratelli Paolo e Vittorio Taviani, fulgidi esempi del cinema d’autore italiano degli anni Sessanta.
Il film prende le mosse dalla massa di gente (sarebbe meglio dire comunisti) che invade Roma per presenziare al funerale dello storico leader del Partito Comunista Italiano, Palmiro Togliatti. Tra i tanti tipi di persone che si raccolgono nella capitale, la cinepresa dei Taviani si posa su quattro gruppi o storie diverse. Due fotografi che vorrebbero girare un documentario sul funerale (uno di questi interpretato da un giovane e bravissimo Lucio Dalla), un comunista venezuelano pronto a ripartire per Caracas per fare la rivoluzione, una coppia di coniugi e un regista depresso che sta girando un film sugli ultimi anni di vita di Leonardo da Vinci.
Queste quattro storie quindi coesistono e si alternano all’interno della pellicola che parte da uno sfondo ideologico, ma che di ideologico realmente ha ben poco. Infatti, il film è tutto fuorché un film politico, anzi è un film esistenziale o, se vogliamo, generazionale. Una crisi identitaria che è generata anche da una crisi politica: dalla perdita di quello che per molti era un punto di riferimento.

Ma la crisi dei personaggi rimane strettamente una crisi identitaria. Il regista soffre di disturbi psichici che sono sempre più gravi, mentre il venezuelano è combattuto fra l’amore per una giovane ragazza italiana e i valori idealistici che ripone nella lotta rivoluzionaria nella sua originaria Venezuela: cambia idea più e più volte ed anche la scelta definitiva non sembra frutto di una decisione netta, ma piuttosto di un sofferto senso del dovere.
Poi c’è anche una crisi matrimoniale: per una moglie di uno dei funzionari del partito andare forzatamente a Roma significa rivelare la sua omosessualità e quindi l’insofferenza per una vita in cui si è ritrovata e in cui sta male.
E poi c’è la crisi esistenziale del giovane Ermanno (Lucio Dalla). Ha poco più di 20 anni, ma ne dimostra 50; e anche a sua detta si sente un cinquantenne. Si è laureato da poco in filosofia, ma non vuole fare il professore: vorrebbe fare il fotografo, ma poi si accorge che nemmeno quella è la sua vocazione. Barcolla quindi tra uno stimolo e l’altro non riuscendo a capire quello che vuole fare nella vita e sentendosi non valorizzato in un nessun ambito.
I Taviani scrivono una sceneggiatura ordinata e incisiva che intreccia bene le quattro storie fra di loro tenendole legate da un grande filo conduttore: quello di una crisi esistenziale e identitaria condivisa. Ed è una sceneggiatura solida perché funziona nell’insieme, ma anche nelle singole scene con dialoghi molto riusciti e situazioni vincenti (il film nel film di Leonardo da Vinci che su una spiaggia romana si dimena e sbadiglia è esempio lampante).
Uno dei grandi esempi di quello che era il cinema italiano d’autore degli anni Sessanta e la prima grande tappa di due cineasti di spicco come i Taviani che hanno proseguito con altri grandi lavori come “Allonsafàn” e “Padre padrone“.
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