“Un sogno chiamato Florida” (“The Florida Project”) è uno dei lavori più interessanti degli ultimi anni del cinema indipendente americano. Proprio in questo senso si colloca una pellicola che mostra un volto dell’America non consono alle tipiche produzioni americane in cui le realtà disastrate spesso vengono tralasciate e omesse. “The Florida Project“, infatti, parla proprio degli strati più indigenti della società.
Ci troviamo in Florida, nei pressi di Orlando. Il film gira attorno alla vita di un motel gestito da Bobby (Willem Defoe) attraverso il punto di vista di un gruppo di bambini che crescono in mezzo alle difficoltà economiche e psicologiche dei loro genitori e che si connotano, quindi, per comportamenti spesso inaccettabili.
Dal focus dei bambini si passa poi a quello di una bambina nello specifico, Moonie, insieme alla giovane madre Halley. Quest’ultima è una ragazza completamente allo sbando: tratta la figlia come una sua amica permettendole di fare qualsiasi cosa e insegnandole uno stile di vita disastrato. Halley per sopravvivere e pagare l’affitto vende articoli spesso rubati e si prostituisce finendo sempre di più in una spirale che la porterà in un baratro.
Insito nella vita del motel e, ancora di più, nella vita di Halley c’è la distruzione del sogno americano. Un sogno la cui teorizzazione è ormai lontana anni luce e di cui rimangono, ormai, più macerie che altro. Quella di “The Florida Project” è l’America dimenticata, quella che raramente compare nelle grandi produzioni: l’America povera che fatica a sopravvivere, che costringe le persone fin dalla giovane età a vendersi moralmente e non solo, e che cresce una generazione di bambini abbandonandoli a loro stessi.
La pellicola racconta tutto questo dietro al rasserenante lilla delle pareti del motel e al punto di vista ingenuo e distaccato della realtà dei bambini. Il regista Sean Baker riesce a raccontare la desolazione di queste vite prendendo i problemi di scorcio, anche minimizzandoli agli occhi dello spettatore, e portandoli alla luce lentamente ma con costanza lungo la durata del film. A un certo punto, infatti, il pubblico sente di essere su un piano inclinato che sta precipitando passo dopo passo.
Non manca qualche passaggio narrativo più scarico, ma in generale il film funziona molto bene. La sua forza (che sarà anche quella del finale) è quella di unire insieme dramma e commedia: il dramma, infatti, è presente sempre sottotraccia, mentre la commedia è quello che succede filtrato dagli occhi dei bambini. Soltanto che la commedia è, appunto, solo immaginata; il dramma, invece, è reale.
Oltre a una fotografia molto intensa e dai colori forti e oltre alla bella prova registica, spicca la prova come attore non protagonista di Willem Defoe (anche candidato all’Oscar) che non disdegna mai le produzioni indipendenti, ma anzi le arricchisce senza strafare, portando sullo schermo la sua genuina intensità.
Il finale termina in commedia coi bambini che festanti raggiungono Disney World; tuttavia anche la ripresa realizzata con I-Phone sottolinea quanto quella sia una realtà inesistente: quello che rimarrà è un dramma profondo e strisciante.
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