Un uomo, dall’aspetto burbero e poco curato, trova un ciondolo, forse prezioso, nei fondali del mare. Lo pulisce dai residui di sabbia e lo guarda controluce, circondato da una luce quasi aurea.
Così inizia The Tale of King Crab, in italiano semplicemente Re Granchio, un film diretto da Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis. Questo film è in realtà il terzo di una trilogia, frutto della collaborazione tra i due registi, che comprende Belva Nera (2013) e Il Solengo (2015). Trilogia caratterizzata dalla commistione tra la finzione e il documentario, tra la leggenda e la realtà.
Subito dopo il titolo, abbiamo il mezzo busto di un vecchietto, che capiamo non essere in nessun modo collegato al primo personaggio: lo capiamo sia dall’abbigliamento, sia dalla fotografia che cambia notevolmente i toni. La luce è più dura, meno idilliaca, meno pittoresca, dà un senso maggiore di realtà. Veniamo infatti catapultati in una specie di circolo dei giorni nostri, sperduto nelle campagne romane, in cui si sono riuniti alcuni vecchi amici per bere qualcosa insieme mentre si raccontano storie popolari e legende, per allontanarsi – fisicamente e mentalmente – dalla noia quotidiana.
Una volta riempiti i bicchieri di tutti con del buon vecchio vino casalingo, si intona uno stornello: “Il figlio del dottore è mezzo matto. Col fuoco e col furore, giustizia ha fatto”. Ci viene così presentato Luciano (interpretato magistralmente da Gabriele Silli), protagonista di questa storia popolare. Figlio del dottore di Vejano, un borgo della Tuscia, durante il tardo Ottocento/primi del Novecento, era noto per essere un emarginato. Era un uomo burbero, dall’aspetto trasandato, spesso ubriaco, anarchico e in conflitto con il principe del borgo. Il perché ci viene presto svelato: lui (Luciano) passava sotto alla porta del castello con le pecore e adesso si è cominciati a fare i dispetti perché il principe non lo fa passa’.

Con un altro stornello come sottofondo, seguito dal suono di un clarinetto, ci viene presentato il primo capitolo di questa storia, “Il fattaccio di Sant’Orsio”.
In questo capitolo, la voce narrante iniziale – lo stornellatore, per intenderci – ci elenca tutto ciò che, secondo le dicerie, Luciano era: un pazzo, un nobile, un santo, un ubriacone, famoso per aver commesso un omicidio e poi essere scappato lontano.
La parte visiva di questo primo capitolo, lasciatemelo dire, è pura goduria: la composizione d’immagine, la luce e le ambientazioni catturano decisamente l’attenzione. Ogni inquadratura è un vero e proprio quadro, e la luce (che sembra strizzare spesso l’occhio a Caravaggio) esalta al massimo le potenzialità drammaturgiche delle scene. La direzione della fotografia vince a mani basse contro tutte le maestranze che hanno contribuito alla realizzazione di questo lungometraggio.
Colpisce anche il fischiettio di Luciano, sia perché lui sembra completamente assente mentre fischia (quasi fosse l’unica azione che in quel momento lo mantiene vivo), sia perché capiremo dopo che non è un planting – come potrebbe sembrare a prima vista – ma un vero e proprio tratto caratteristico del personaggio e una sorta di fil rouge di tutta la storia.
Importante aspetto di questo capitolo è anche la figura di Emma (Maria Alexandra Lungu), una sorta di Madonna laica di questa storia. Figlia di un contadino locale, donna amata da Luciano, ma promessa sposa del principe – lo stesso contro cui Luciano intende ribellarsi per principio di giustizia.
Le cose, però, non vanno come Luciano progetta e inizia qui il secondo capitolo, “In culo al mondo”. Titolo decisamente particolare, ma che racchiude bene l’esilio a cui Luciano è costretto per mettersi in salvo la vita. Lo ritroviamo, infatti, nell’ostile Tierra del Fuego, a Bahia Aguirre, costretto a fingere di essere Don Antonio – missionario salesiano del luogo – e guidare la spedizione di alcuni marinai in cerca di un tesoro leggendario.

Ci tornano in mente, a questo punto, le parole di Emma, quando raccontava a Luciano del sogno che aveva fatto: ho sognato che solcavamo i mari e andavamo lontano. Questo segnava una grande pena per me, per te, per tutti quanti. E invece il mare, diventava un lago.
Paradossalmente, a Bahia Aguirre, sembra quasi che Luciano – anima in pena senza una direzione ben precisa, costantemente in uno stato di perdizione esistenziale, che quasi preferisce il farsi morire al vivere secondo canoni stabiliti da altri – abbia finalmente una bussola da seguire. Seppur spinto dalla disperazione, ora Luciano ha un obiettivo: trovare il leggendario tesoro dell’armata de La Janita per tornare – dopo cinque lunghissimi anni – a casa.
In questo capitolo, vediamo alternarsi più generi cinematografici: in particolare il documentario, che racconta la storia della Janita e la missione di marinai spietati che hanno come unico scopo l’appropriarsi del tesoro, e il genere western nella battaglia finale che decreterà l’unico vincitore degno di cercare il tesoro.
Non dirò certo chi vince la battaglia finale, ma è certo che Re Granchio racconta il cammino di un outsider, paragonabile quasi a una via crucis faticosa e dolorosa.
Questo film è tante cose, e se ne potrebbe parlare a lungo. È certo che il protagonista è un outsider tanto quanto il film in toto. Sicuramente strizza l’occhio alle arti figurative, specialmente la pittura, ma anche ai miti greci (l’esilio dell’eroe e il viaggio travagliato per cercare di tornare a casa: Vejano diventa una sorta di nuova Itaca); molto evidente anche il contrasto tra il sacro e il profano. E ci sarebbe da fare tutto un discorso a parte sull’aspetto sonoro di questo film – peccato non sia stato curato minuziosamente e si perdano frammenti di battute in alcuni punti!
Seppur nella scena del circolo di vecchi amici ci venga assicurato che questi sono racconti tramandati da nonni e bisnonni, probabilmente non sapremo mai se è puro frutto di finzione o reale leggenda/storia popolare, ma è anche vero che la gente racconta quello che sa. Solamente, se racconta dieci parole, dopo vie’ tramandato a quindici parole, a cinquanta parole. Alla fine, c’è un po’ inventato e un po’ vero.
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