Babylon (2022) di Damien Chazelle è qualcosa che si avvicina di molto alla parola capolavoro.
Il film è quello che un tempo si sarebbe definito un kolossal, ovvero un’opera dalla lunga durata che racconta l’ampia parabola di alcuni personaggi che, alla fine, altro non sono se non gli emblemi di un mondo e di un modo di vivere. Questa volta il mondo raccontato è quello della Hollywood chiassosa, caotica e senza freni tra anni Venti e Trenta del ventesimo secolo.
E i personaggi che il regista di Providence ha scelto per identificarla sono Jack Conrad (Brad Pitt), un attore di punta del cinema muto, Nellie LaRoy (Margot Robbie), una parvenu dalle passioni forti che diventa star del cinema e Manuel Torres (Diego Calva), immigrato messicano che da uomo della sicurezza diventa direttore di una casa di produzione.
Le parabole di vita dei tre personaggi sono simili, ovviamente con le dovute proporzioni. O meglio, almeno lo sono quelle dei personaggi interpretati da Margot Robbie e Diego Calva: dall’ascesa rapidissima alla caduta fragorosa con, anche in questo, conclusioni a loro volte diverse che rispettano la caratterizzazione del personaggio. Più tragica una, più moderata l’altra.
Manny Torres è colui che ce l’ha fatta, quello che partendo dal nulla ottiene tutto, ma scopre quanto quel tutto possa essere pericoloso e ritorna quindi a quel nulla che poi non era così male. Nellie LaRoy è la ragazza senza alcun freno, l’iperattività e la follia fatte persona, l’esuberanza violenta e furoreggiante che è tanto veloce a spiccare il volo tanto quanto a bruciarsi. E, in questo senso, la prova attoriale di Margot Robbie è di grande livello: la padronanza con cui muove il suo corpo (la corporalità è un aspetto molto importante in questa pellicola) e la sua mimica sono perfettamente dentro il personaggio sfrenatamente voluttuoso e arrampicatore sociale che interpreta.

In tutto questo, poi, c’è il personaggio di Brad Pitt. Jack Conrad è il tipico attore di successo del cinema muto hollywoodiano che viene drasticamente dimenticato e abbandonato con l’avvento del sonoro (proprio in questo senso il riferimento a Singin’ in the Rain e The Artist è esplicito tanto quanto svelato nel finale).
La sua parabola di vita parte già dal punto più alto per poi incontrare a sua volta la fine. Ma il suo è un personaggio diverso: nel mondo estremo e totalizzante dello star system sembra riuscire a mantenere un certo tipo di distacco dalla distruzione che quel mondo stesso richiede. Nonostante quella che sarà anche la sua fine, Jack Conrad trova sempre la consapevolezza della posizione in cui si trova e, dopo un momento di rammarico, la accetta.
E’ un personaggio autoironico e con margini di indipendenza rispetto agli altri fagocitati dallo star system: in questo senso la scelta di recitare comunque in un film dopo essere stato abbandonato, e consapevolezza di essere l’ultima ruota di scorta attestano la lealtà del suo sguardo melanconico e realista sulle cose. E ancora una volta Brad Pitt si dimostra perfettamente centrato nel ruolo che interpreta. Cosa che ormai, onestamente, gli capita praticamente sempre.

Ma torniamo a parlare del film nella sua globalità. Funziona o non funziona? Secondo chi scrive funziona benissimo. Bellissima la colonna sonora, molto belle scenografia e fotografia, straordinari regia e montaggio. E il film vale i 189 minuti di visione: nessun minuto avrebbe potuto essere tagliato; ognuno è funzionale all’unitarietà della storia narrata.
Una storia che funziona perché riesce a raccontare con vividezza e completezza di dettagli quello che è stato un mondo stravolto, vorticante e travolgente. E lo fa senza nascondere nulla, mostrando ogni tipo di sfumatura dalla più sfavillante alla più inquietante e mescolando commedia e dramma come i grandi film sanno fare.
In questo senso la regia di Chazelle è strepitosa. Il regista di La La Land riesce a dare un ritmo incredibile alla narrazione non stancando mai lo spettatore (e non è facile non farlo per oltre ore di visione) e tessendo una tela che stupisce per la complessità di realizzazione e per l’efficacia delle tecniche registiche utilizzate. Ogni pezzo sta perfettamente al suo posto: dai primi 40 minuti di una festa esorbitante ai piani sequenza che hanno il compito di fare sentire lo spettatore dentro la scena insieme ai personaggi che la popolano.
E si potrebbe continuare all’infinito a fare esempi, ma la sostanza non cambierebbe: la regia di Babylon è pazzesca. E lo stesso aggettivo si può usare per il film che, tra l’altro, si chiude con un finale perfetto che è anche omaggio totale alla storia del cinema.
Insomma, se qualcuno parla di capolavoro lo fa a ragion veduta. Poi, il perché il film sia stato ignorato agli Oscar è francamente un mistero, ma del resto non lo scopriamo certo oggi che le scelte dell’Academy da un decennio a questa parte sono quantomeno opinabili.
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