Rumore bianco (White Noise) è l’ultimo film scritto e diretto da Noah Baumbach, adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo di Don DeLillo.
Jack Gladney (Adam Driver) è un professore universitario di studi hitleriani. E’ al suo quarto matrimonio con Babette (Greta Gerwig) e i due vivono insieme ai numerosi figli avuti dai precedenti matrimoni di entrambi. Il nucleo famigliare è fortemente calato nel mondo degli anni Ottanta con i suoi supermercati sfolgoranti, il capitalismo al massimo delle sue possibilità, le onde e le radiazioni prodotte da tivù e radio.
Tutto sembra scorrere in modo sereno e lineare finché un evento tossico aereo non costringe la famiglia di Jack ad evacuare dalla propria casa e ad affrontare uno scenario emergenziale che stende un velo apocalittico su tutta la vicenda.
Tuttavia, ben presto si ritorna alla normalità. Una normalità che, però, non può cancellare il disagio psichico provocato da quell’evento. Babette nel frattempo diventa sempre più strana e preoccupante: il suo sguardo è perso nel vuoto e sembra completamente privo di vitalità. Jack, insieme a una delle figlie, scopre che la moglie assume uno strano farmaco, chiamato Dylar, che non è nemmeno in commercio. La verità sulla natura di questa sostanza porterà a galla rivelazioni scioccanti per il protagonista che vedrà estendersi sulla propria testa un’incombente cappa di morte.

Partiamo subito da un presupposto. Rumore bianco di Don DeLillo è uno dei romanzi più significativi della fine del Novecento; un autentico capolavoro che anche solo pensare di poter portare al cinema è impresa per pochi. Noah Baumbach è sicuramente uno dei registi migliori in circolazione per la qualità e la freschezza di tutti i suoi ultimi lavori. Per cui la curiosità di vederlo all’opera con questo soggetto era veramente alta.
Sottolineiamo anche che prima di affrontare questa visione ci abbiamo tenuto a leggere con attenzione il romanzo. Ecco, in questo senso il film è una fedele trasposizione dell’opera letteraria: per la quasi totale cura nella riproduzione di alcuni dialoghi, per la divisione in tre atti e per quello che concerne la costruzione dell’atmosfera circostante insieme alla caratterizzazione dei personaggi.
Onestamente, però, sembra essere più un film pensato per chi abbia già letto il libro. Vederlo in modo autonomo può essere straniante e poco comunicativo: non a caso le critiche del pubblico a riguardo sono state abbastanza severe. Per chi non avesse letto il romanzo, il film può sembrare piatto, scritto con poca incisività e diviso pure male. In realtà tutte queste cose assecondano la volontà autoriale del soggetto da cui è tratto. Che si comprende appieno solo essendo a conoscenza del fatto che il grande protagonista è l’atmosfera misteriosa, elettrica e nebulosa in cui si muove tutta la storia che altro non è se non un’aura di morte pervasiva e incombente.
I protagonisti del film hanno paura di morire: sono immersi nella sensazione di morte e sfidano la morte continuamente. Prima da soggetti passivi e poi, nel finale, da agenti attivi.

Ecco, proprio parlando del finale c’è qualcosa da dire. Parlavamo prima della fedeltà del film col romanzo. Questa fedeltà viene mantenuta fino a 30 minuti dalla fine, poi viene stravolta. Il film a quel punto diventa una sorta di noir al neon che sembra muoversi fra le scenografie di Blade Runner. Anche la narrazione e il montaggio si fanno più frammentari e onirici.
Da questo momento in poi Baumbach rimodella la storia dando al tutto un lieto fine che manca completamente nel romanzo dove, invece, nulla si risolve, tutto rimane non detto e impalpabile, e il senso della morte continua a incombere sui protagonisti.
Un finale, quindi, che risolve in commedia quello che in realtà è un dramma sottile e narcotizzante. Del resto tutta la pellicola viene pervasa dalla commedia e da numerosi spunti ironici: una scelta che, francamente, fa storcere il naso. E che rovina quella sensazione di fastidioso rumore bianco che attanaglia le menti dei personaggi.
Il lavoro di Baumbach funziona quindi? Secondo chi scrive Rumore bianco è un film che può piacere molto a chi ha letto il romanzo fino a poco prima della fine e poi magari infastidisce anche questo tipo di spettatore. Per chi non ha letto il romanzo può risultare invece un film troppo lungo che riesce a comunicare poca tensione e compartecipazione emotiva.
Sembra quindi essere un lavoro che si attesta in posizione inferiore rispetto agli altri ultimi lavori del regista newyorchese. Trasporre l’opera di DeLillo era veramente un’impresa colossale; nonostante questo c’è rammarico perché i presupposti erano ottimi, ma l’esito finale lo è di meno.
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