L’ora di religione (Il sorriso di mia madre) è un film del 2002 scritto e diretto da Marco Bellocchio. Secondo molti critici si tratta di uno dei capolavori del regista italiano e, sicuramente, non possiamo che essere d’accordo.
Ernesto Picciafuoco (Sergio Castellitto) è un pittore ateo dall’attitudine solitaria che si sta separando da sua moglie. Improvvisamente viene a sapere che è in atto un processo di canonizzazione nei confronti di sua madre, uccisa anni prima dal fratello Egidio, malato di mente, dopo che lei aveva insistito ripetutamente di smettere di bestemmiare. In seguito alla morte pare che un uomo vicino alla famiglia, malato terminale, invocando la donna sia miracolosamente guarito.
Nel frattempo Ernesto con l’ormai ex moglie discute sugli effetti che sta avendo la partecipazione all’ora di religione a scuola del piccolo figlio Leonardo. Quest’ultimo sembra, a volte, parlare con Dio o comunque intrattenere un inedito rapporto con la fede.
Queste due circostanze travolgono la vita spirituale di Ernesto che, da ateo fermissimo, deve fare i conti con la religione nel senso lato ma anche circoscritto della sua individualità.

Bellocchio, attraverso gli occhi del suo protagonista, mostra l’ipocrisia di un certo tipo di religione. I fratelli e, in generale, la famiglia di Ernesto si dimostrano degli opportunisti senza vergogna nel cercare di ottenere la canonizzazione della madre in modo poi da poterla sfruttare con gli innumerevoli privilegi che ne seguirebbero. Non sono nemmeno intenzionati a nascondere questa intenzione: il loro unico obiettivo è strappare una confessione al fratello assassino e malato di mente che possa essere utile al loro scopo.
L’unico che, nonostante tutto, riesce a vedere davvero il povero Egisto con compassione è proprio Ernesto: straziante è l’abbraccio che quest’ultimo gli dà mentre Egidio ha una delle sue crisi.
Se il lato malsano e ipocrita della religione viene incarnato dalla famiglia di Ernesto (e anche dal clero che Bellocchio dipinge con pennellate molto ruvide e taglienti), una religione più genuina e intima viene espressa attraverso gli occhi infantili del piccolo Leonardo e nei tentennamenti dello scorso Ernesto. La mimica facciale di Sergio Castellitto ha un ruolo decisivo nella trasmissione dallo schermo allo spettatore di tutta una serie di chiaroscuri di posizioni e di dubbi che salgono dalla stoica posizione del protagonista. Quella di Castellitto, infatti, è una delle performance migliori della sua carriera per intensità ed esito.

Tutto il film, quindi, si avvolge di una patina vagamente mistica che trasfigura certe azioni e avvolge la vita dei personaggi che tocca. La vita stessa di Ernesto si riempie di episodi ambigui e singolari come l’innamoramento per una giovane donna che entra dal nulla nella sua vita e il duello cavalleresco con un fantomatico conte.
Infine, altro tema centrale è quello del rapporto di Ernesto con sua madre. Lui si rivede precisamente nel sorriso di lei ed è sempre il suo sorriso che gli provoca equivoci all’interno della visione. Più volte gli viene domandato “perché sorridi?”: quel sorriso quindi diventa per lui una macchia profonda che lo lega a una madre che rinnega e che sente lontanissima dalla sua sensibilità. Una madre che, però, rimane tale e che quindi lui si porterà addosso per sempre.
Bellocchio realizza quindi un film profondamente intimo e personale: un viaggio dentro la spiritualità più profonda e lacerante. I tempi della regia sono, infatti, estremamente lenti e compassati: non mancano anche alcuni slow motion che insistono sulla drammaticità di alcune scene nodali evidenziate anche dall’incedere di musiche penetranti. Abbondano poi i primi piani o comunque i piani stretti: tutta l’azione si svolge dentro i personaggi e, soprattutto, sulle variazioni, anche impercettibili, del loro volto.
L’ora di religione è decisamente uno dei migliori film degli anni Duemila in Italia. Ed è anche uno dei migliori film che trattano la fede nella sua interezza e dal punto di vista dell’ateo.
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