Arrival è un film del 2016 di Denis Villeneuve tratto da un racconto di Ted Chiang.
In dodici parti del mondo arrivano delle astronavi extraterrestri (delle strutture monolitiche e oblunghe nere molto evocative). In Montana, negli USA, a comporre il team scelto per l’indagine di questo fenomeno e quindi per l’interazione con le forme aliene, sono scelti il fisico Ian (Jeremy Renner) e la linguista Louise Banks(Amy Adams). Il loro obiettivo è quello di entrare regolarmente nella struttura aliena e di cercare di interfacciarsi con le due creature in modo da capire lo scopo della loro presenza sulla terra. Le figure aliene vengono definite eptapodi, ossia una sorta di animale con sette zampe.
L’approccio della dottoressa Banks è più lento e costruttivo di quello rapido e incisivo – e anche inconcludente – messo in atto in precedenza dal governo. Secondo Luoise l’unico modo per portare a termine con successo la missione è acquisire lentamente la fiducia degli alieni e, prima di tutto, riuscire a comprendere il loro linguaggio.

Molte della fila tirate nel film vengono risolte nell’ultima mezzora – chi volesse evitare spoiler salti questo paragrafo e il prossimo. Louise e Ian riescono a entrare in empatia con gli eptapodi e riescono a comprendere grandi tratti del loro linguaggio finché Louise, prima che scoppi una guerra globale, finalmente comprende il loro scopo. Sono venuti sulla Terra per fare un dono agli uomini, ovvero per insegnargli il loro linguaggio. Louise sarà la prima portatrice di questo sistema semasiografico di segni: un sistema che cambia radicalmente il modo di pensare dell’uomo e gli permette di vedere tutta la propria vita con linearità.
Per cui, nel momento in cui è appreso, questo linguaggio permette di dominare il passato e soprattutto il futuro. Essendo in grado di vedere il futuro molte azioni del presente vengono così fatte ed eseguite meccanicamente, ponendo in auge il grande tema del libero arbitrio. Se la propria vita è già segnata e in qualche modo destinata, cosa rimane del libero arbitrio? Ma a questa domanda il film non risponde.
Arrival, di fatto, è il film con cui Villeneuve, dopo aver trattato il thriller e il noir, ha deciso di esplorare il mondo della fantascienza, inserendosi in quel filone che parla di alieni e dell’interazione tra uomo e alieno. In un’intervista rilasciata sul film, il regista canadese ha dichiarato che voleva fare una “dirty sci-fi” (cioè una “sporca science fiction”), anche se, a essere onesti, ci sembra un film tutt’altro che sporco, qualunque cosa voglia dire questo aggettivo in questo caso.

L’intento sembra proprio quello di voler fare un film soprattutto sull’interazione tra uomo e alieno piuttosto che semplicemente sugli alieni, e il risultato è pienamente centrato. La prima ora e mezza, che gioca appunto su questo aspetto, insiste sull’empatia e la prudenza necessarie per una mediazione di questo tipo mostrando quanto deve essere lento e paziente il confronto tra due specie diverse. Questa può essere anche una lezione che travalica lo specifico contesto e che vale in tutte le nostre interazioni sociali.
Il tema del linguaggio, quindi, è il tema centrale del film: il linguaggio come strumento fondamentale delle nostre vite che è anche modo di pensare e vedere il mondo. Vista la sottilità del tema, quindi, Villeneuve utilizza tempi e ritmi lenti nella prima ora e mezza di film proprio per mostrare la lentezza di un processo e di un contatto che, propriamente, hanno bisogno di tempo.
Aggiunge a questa scelta una fotografia molto scura e post-apocalittica, insieme a una scenografia molto pulita e nitida. Magistrale è anche la cura dei dettagli soprattutto quelli di tipo fisico, controllati da esperti interpellati espressamente per la realizzazione della pellicola. Come spesso accade, poi, Amy Adams offre una grande prova attoriale per intensità e delicatezza.
Arrival apre quindi con successo una fase nuova nella filmografia di Villeneuve. Un filone votato alla sci-fi che è ancora in fase di esplorazione e che sta vedendo nei film legati a Dune (il primo già uscito, il secondo in lavorazione) probabilmente il suo momento più alto.
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