Il colibrì

“Il colibrì”: la lunga parabola d’un uomo tra i flutti della vita

C’era tantissima attesa per l’arrivo nelle sale de Il colibrì, il film diretto da Francesca Archibugi tratto dal bestseller di Sandro Veronesi che ha vinto il premio Strega nel 2020.

C’era tanta attesa innanzitutto per il cast stellare che era stato composto per realizzare questa pellicola: Favino, Smutniak, Bejo, Moretti, Morante … sono tutti nomi che accostati uno affianco all’altro fanno accrescere notevolmente le aspettative. E poi c’era attesa perché il romanzo, effettivamente, racconta una di quelle storie da cui è difficile non essere coinvolti e trascinati.

A proposito della storia raccontata, riassumerla o provare a farlo risulta pressoché impossibile. E’ la storia di una vita; della vita di Marco Carrera (Pierfrancesco Favino). Una vita fatta di traumi giovanili, di un matrimonio quasi creato a tavolino con Marina (Kasia Smutniak) una donna passionale e vorticosa, di una relazione extraconiugale platonica con Luisa (Berenice Bejo) ovvero l’Amore di una vita sempre sfiorato ma mai vissuto realmente, di un rapporto complesso e frastagliato con i genitori e di un’amicizia, se così si può chiamare, salvifica con uno psichiatra.

Per riassumere in modo ancora più stringente quella che vediamo sullo schermo è la vita di un uomo in tutta la sua interezza: una vita densa di accidenti, Amore, Morte, fortuna o sfortuna. Non si può dire che la vita di Marco Carrera sia una vita semplice o tranquilla; o almeno, lui prova ad esserlo ma i rivolgimenti che si trova ad affrontare spesso lo travolgono e lui deve avere costantemente la forza di rimanere saldo e di non farsi abbattere dai flutti della sorte. Ci sono dei momenti in cui è impassibile, altri in cui è sul punto di crollare, ma la sua forza è proprio quella di resistere.

Marco Carrera, infatti, è un colibrì (come lo chiamava la madre quando era bambino), cioè investe tutta la sua energia nel rimanere fermo. Un restare fermo che può essere scambiato per ignavia, ma che invece è una disposizione morale e psicologica a non lasciarsi abbattere da eventi che, obiettivamente, avrebbero abbattuto un consistente numero di persone. E’ uno dei modi per vedere il bicchiere mezzo pieno: per prendere quello che di buono c’è stato nel caos a volte frenetico e a volte spietato dell’esistenza.

Proviamo a entrare in un’analisi tecnica del film tenendo a mente questa capacità del protagonista di restare saldo davanti alle sventure. Il romanzo di Sandro Veronesi è un romanzo dalla grande struttura narrativa e dall’intreccio ottimamente costruito. La storia si avvolge e si riavvolge su piani temporali diversi e con modalità di comunicazione diverse; e, lentamente ma con costanza, si ricostruiscono tutti i pezzi del puzzle che restituiscono la totalità di Marco Carrera.

Il grande merito di questo film, e quindi della regia di Francesca Archibugi, è quello di riuscire a ricostruire benissimo la modalità narrativa usata nel romanzo. Quindi, durante la visione della pellicola, vengono sovrapposti e intersecati fra loro i diversi piani temporali che sono gli snodi cruciali della vita del protagonista – per di più, questo a volte avviene con escamotage tecnici molto interessanti.

E il film è talmente tanto vicino al libro, ovvero ne ha colto talmente a pieno la sensibilità, che emotivamente ha lo stesso andamento che si prova durante la lettura del romanzo. Ovvero una prima parte ricca di eventi e quindi vagamente confusionale in cui il lettore/spettatore fatica a mettere insieme tutte le tessere del mosaico, e poi una seconda parte in cui tutto si tiene insieme, in cui alcune fila vengono tirate e la narrazione si arricchisce di una tensione emotiva fortissima che prende alla gola chi legge/guarda.

L’ultima parte, infatti, è un coagulo tremendamente intenso di emozioni e sensazioni: quasi il riassunto di tutta una vita di legami e intrecci. E allora, dopo che per tutta la visione la parola è stata preponderante, nel finale lo spazio è lasciato alla potenza degli sguardi e dei silenzi perché tutto quello che c’era da dire è stato detto e non rimane che la consapevolezza dell’affetto.

Come abbiamo detto in precedenza, c’è solo un momento in cui il colibrì vacilla e in quel momento a rimetterlo in sesto c’è il discorso dell’ormai amico e confidente dottor Carradori (Nanni Moretti) che, di fatto, riassume il senso di tutto il film. Questo momento è l’inizio di una climax che crescerà e rimarrà costante fino ai titoli di coda.

Il COlibrì Moretti

Dei meriti della regia si è detto. E di pari passo vanno quelli della sceneggiatura. Parlando delle prove attoriali Favino si dimostra ancora una volta attore dalle mille capacità e sfaccettature: bravissimo questa volta nell’interpretare un personaggio misurato che deve rimanere sotto le righe, ma che nell’arco di tutta la pellicola acquisisce una consapevolezza maggiore di quella che è la sua esistenza diventando soggetto attivo da passivo che era.

Poi, tra le buone prove di Smutniak, Bejo, Morante e Porcaroli spicca la performance di Nanni Moretti. Il regista romano era già stato nei panni di uno psicanalista ne La Stanza del figlio e qui conferma che il ruolo gli calza ancora perfettamente a pennello: i suoi modi lenti, cadenzati ma indagatori sono il contraltare perfetto al caos del resto dei personaggi. Di fatto il suo personaggio incarna la nemesi perfetta dell’aleatorietà che si scaglia su Marco Carrera. E infatti sarà proprio lui a guidare Carrera nel momento più difficile in una scena in cui Moretti mette in gioco un’altissima intensità emotiva.

Il colibrì è una visione fortemente consigliata: vi travolgerà, vi lascerà col respiro pesante, ma vi farà sentire anche profondamente vivi.

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