A Venezia l’atmosfera è elettrica: vestiti eleganti, il rosso purpureo del red carpet, la voglia di festeggiare, l’inclinazione del pubblico alla standing ovation. In questo stato di realtà sospesa e ubriacatura cinematografica, ospiti e spettatori passeggiano tranquilli, ammirando lo schermo gigantesco ancora grigio e pregustando le due ore di meraviglia che li attendono dopo che le luci si saranno abbassate.
Ognuno ha preso il proprio posto, l’aria è carica di aspettative, entrano gli attori e la regista: poco dopo li raggiunge un ritardatario, ma tutto ad un tratto, dal nulla, senza preavviso o senso, Harry Styles si sporge verso Chris Pine e lascia colare su di lui un poco di quella saliva che tutte le fan più accanite del cantate sarebbero disposte a comprare a peso d’oro. Orrore!

Eppure, è significativo che questo incidente mediatico sia l’unica forma di interesse che il pubblico abbia mai mostrato sinceramente nei confronti di Don’t Worry Darling(2022), per la regia di Olivia Wilde, se escludiamo appunto, le fan di Styles pronte a seguirlo fino all’inferno.
E proprio di inferno si parla anche nel film, una trappola fatta di colori pastello, design anni 50 e sorrisi di plastica nella quale Florence Pugh si trova segregata col marito, vivendo una vita apparentemente perfetta ma chiaramente “troppo bella per essere vera”.
Un film certamente ben confezionato a livello tecnico, in cui la fotografia e la musica la fanno da padroni, creando quell’atmosfera senza la quale l’intero progetto crollerebbe sotto il peso delle sue inadeguatezze narrative. La sceneggiatura si dichiara sconfitta già dalle prime inquadrature: il mistero che alimenta il film non si fonda sull’interrogarsi dello spettatore circa la veridicità di tutto quello che sta vedendo, bensì sul cercare di indovinare quale espediente narrativo è stato impiegato questa volta dagli sceneggiatori.

Alieni? Lavaggio del cervello? Viaggio nel tempo? L’intero film si riduce ad una lotteria di plot-twist utilizzati dalla ricca filmografia a cui Don’t Worry Darling si ispira. I primi e scontati esempi sono La Fabbrica delle Mogli (1975) e il suo più recente remake La Donna Perfetta (2004), i cui passi sono virtualmente ricalcati anche da Olivia Wilde. Sarebbe poi impossibile non citare The Truman Show (1998) e La Fine del Mondo (2013), rispettivamente di Peter Weir e Edgar Wright, tenendo però ben presente che tutti i titoli citati fino ad ora proteggono gelosamente i loro segreti, seminando nelle loro prime metà vaghi indizi di quell’interrogativo nocciolo del film: is this the real life, is it just fantasy?
Quando l’inevitabile soluzione viene fornita allo spettatore, egli non può far altro che annuire e, eventualmente, sentirsi gratificato dall’aver indovinato le modalità attraverso cui ciò avviene. La più grande colpa di Don’t Worry Darling è non rispettare l’intelligenza del suo pubblico, trasformando una premessa vecchia ma pur sempre interessante in un vero e proprio gioco ad estrazioni.
“Numero: 32 – è tutto un sogno. Nessuno? Numero: 54 – è una complessa realtà virtuale. Abbiamo un vincitore!”
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