“Get Out” (2017) è il primo film da sceneggiatore e regista di Jordan Peele. Un esordio incisivo che gli è valso un grande successo di pubblico e di critica: il film ha vinto l’Oscar per la migliore sceneggiatura originale ed è stato candidato per miglior film, miglior regia e miglior attore protagonista.
La trama è semplice: Chris (Daniel Kaluuya) è fidanzato con Rose e i due decidono di andare un weekend a casa dei genitori di lei. Chris è preoccupato per questo incontro soprattutto perché teme che i genitori di Rose possano non prender bene il fatto che lui sia afroamericano. L’incontro prende fin da subito una piega grottesca con Chris che si trova a disagio e che nota cose sempre più strane intorno a lui.
La situazione precipita sempre più rapidamente con Chris che è vittima di una seduta di ipnosi da parte della madre di Rose. Col passare del tempo accumula sempre più indizi riguardo l’improbabilità della situazione capendo che la famiglia di Rose nasconde qualcosa di oscuro: tuttavia non riesce a fuggire, rimanendo prigioniero della famiglia e alla mercé delle loro macabre e folli intenzioni.
Ovviamente non riportiamo la parte finale del film dove si raccoglie tutta la climax della pellicola e che rappresenta uno dei grandi punti d’intrattenimento di questo genere di produzioni.

“Get Out“, infatti, si può definire un thriller/horror: più thriller che horror a dire il vero. Entra a fare parte in quelli che tradizionalmente sono considerati B movies, ma lo fa cercando di entrare in quella tradizione che ha trasformato questo genere, appunto considerato di serie B, in un genere che può essere d’autore come tanti altri (Lynch, Cronenberg, Carpenter e Romero sono solo alcuni dei punti di riferimento).
Partendo proprio da questi grandi maestri, Peele riesce a creare un’unione incisiva tra immagini e sonoro, facendo di quest’ultimo un elemento primario della pellicola, utilizzandolo nel modo giusto. Tuttavia, come risulta evidente anche solo leggendo i riconoscimenti ottenuti, il punto forte di questo film è la sceneggiatura.
Il soggetto che sta dietro a tutto il lavoro è molto interessante e la sceneggiatura, appunto, riesce bene a tradurre un’idea molto buona in un copione ben scritto che non si incarta quasi mai e riesce a dosare benissimo gli elementi diegetici all’interno dei 104 minuti di visione. Peele, infatti, è molto bravo a giocare con la suspense che instilla nello spettatore acuendo e smorzando la tensione a piacimento.
Una sceneggiatura, quindi, che funziona bene, anche se forse un po’ troppo decantata. Qualche difetto rimane: per esempio un finale – e qui chi vuole evitare spoiler salti questo paragrafo – che pare un po’ troppo consolatorio e che risolve tutto con l’arrivo insperato e improbabile dell’amico a salvare il protagonista. Un finale, a dirla tutta, da “b movie” che rovina leggermente quanto di buono visto in precedenza.
In ogni caso, si tratta di un piccolo dettaglio che non toglie il fatto che questo sia un buon film (difficile condividere in questo senso i toni esageratamente entusiastici usati spesso per questa pellicola). E per un esordio è un grande risultato.
Come detto, molte delle idee messe in scena da Peele sono intriganti e convincenti: come quella riguardo il “Sunken Place”, ovvero il luogo in cui sprofonda la mente di chi è sotto ipnosi – con un chiaro ammiccamento a quella che era la Loggia Nera lynchana.
Dentro tutto questo mix è inserito anche il tema del razzismo americano bianco ancora strisciante nei confronti della popolazione afroamericana. Anche se, a dire il vero, più che per un rilievo di tipo primario questo tema sembra essere stato scelto per la funzionalità con la storia raccontata. La tematica razziale si trova spesso a fare parte di questo genere di film, per un motivo o per un altro.
In una estate in cui, come spesso accade, le uscite cinematografiche di qualità scarseggiano, è uscito nelle sale “Nope“, il nuovo film di Jordan Peele. Sarà molto interessante vedere a che punto siano l’evoluzione e la maturazione del regista americano.
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