“Il Gigante” (1956) è un film di George Stevens e quello che si potrebbe definire l’epitome del cinema classico hollywoodiano degli anni Cinquanta. La pellicola è poi diventata celebre per essere la terza e ultima prova attoriale di James Dean prima della tragica morte, ma rimane anche e soprattutto un grande esempio di quello che era lo stile cinematografico americano di quel particolare periodo.
Bick (Rock Hudson), discendente di una ricca famiglia di allevatori del Texas, sposa Leslie (Liz Taylor), giovane ragazza del Maryland. Leslie si trova a confrontarsi con una realtà completamente diversa da quella in cui è cresciuta sia per valori che per attitudini: questo scontro culturale è evidente nello scontro personale con la sorella del marito Luz (Mercedes McCambridge). Leslie è anche corteggiata da Jett Rink (James Dean), giovane bracciante che lavora per la famiglia, per il quale Luz ha un debole (al fratello Bick non va a genio Jett e infatti vorrebbe licenziarlo; ma Luz lo protegge).
Tragicamente Luz muore e lascia in eredità un piccolo appezzamento a Jett che resiste alle richieste di Bick di vendergli tale terreno, rendendosi così indipendente. Jett, nel suo nuovo pezzo di terra, scopre il petrolio, diventando così milionario e uno dei personaggi più influenti del Texas. Nel frattempo il matrimonio tra Bick e Leslie procede tra alti e bassi, ma allo stesso tempo rafforza sempre di più un legame che per i due diventa imprescindibile.

Quella di George Stevens è una vera e propria epopea americana (il film, non a caso, dura 3 ore e 21 minuti) e il tono con cui tutta la pellicola viene raccontata è quello epico. Tutto il film segue le regole del cinema classico hollywoodiano per quanto riguarda il montaggio, le scelte registiche e il dipanarsi della storia: tutto è finalizzato alla narrazione che rimane lo scopo strettamente primario del lavoro. Una narrazione che segue sempre particolari stilemi nella scelta di cosa mostrare e cosa invece omettere, ma anche nella scelta esplicita del taglio registico che deve essere quanto più chiaro e pulito.
George Stevens fa tutto questo e lo fa molto bene rimanendo nei canoni prescritti e, a volte, anche valorizzandoli. Non mancano infatti alcune accortezze personali come la dissolvenza tra una scena e l’altra e certi accorgimenti registici molto interessanti (per esempio il momento in cui Luz monta il cavallo imbizzarrito e viene mostrato un primo piano vicinissimo e rapidissimo dello sperone che lacera la carne dell’animale). Stevens, a riguardo, vinse l‘Oscar per la migliore regia – l’unica statuetta in mezzo alle 9 candidature che il film aveva ricevuto.
Poi ci sono le prove attoriali che si misurano nella capacità di interpretare dei personaggi dalla giovinezza fino all’anzianità (il film, infatti, copre tutta la vita dei protagonisti). Rock Hudson è perfetto nella parte di un allevatore facoltoso che viene da modi bruschi, ma che cerca anche di essere moderato: la sua vita si muoverà sempre tra questi due poli contrastanti con un approdo finale che dà una spinta notevole al personaggio e all’interpretazione di Hudson (la scena finale in cui Bick finalmente rigetta il suo razzismo e, per difendere la nuora creola, si rende protagonista di una rissa, è veramente notevole).
Liz Taylor emerge per la sua delicatezza soprattutto per le tematiche sociali che sono legate al suo personaggio. Molto apprezzata anche Mercedes McCambridge nei pochi minuti che è sullo schermo.
Che dire della prova di James Dean (che morì in un incidente stradale poco prima di terminare le riprese)? Tutto sommato la sua presenza all’interno della pellicola sarà intorno ai 15/20 minuti, per cui la storia ruota intorno a ben altro. Tuttavia, soprattutto nelle scene in cui è giovane, riesce a rubare la scena con la sua stravaganza e la sua recitazione “strascicata” tipica dell’Actor’s Studio che ha reso celebre anche Marlon Brando. Poi, nelle sequenze da vecchio imprenditore del petrolio, come aveva già notato il critico Leo Pestelli, sembra perdere un po’ di smalto ed esagerare con la caratterizzazione del personaggio. Ma il suo contributo rimane molto alto.
Una menzione di marito anche per una scenografia molto curata. Uno dei segni di quello che è stato, appunto, la classicità del cinema di Hollywood di quei decenni: un cinema senza macchia, nitido, chiaro, votato alla narratività più totale. Un canone cinematografo di cui “Il Gigante” è perfetta esemplificazione.
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