I disperati di Sandor

“I disperati di Sandor”: un campo di prigionia che è teatro della mente

I disperati di Sandor” è un film del 1967 del regista ungherese Miklos Jancso facente parte di una trilogia che comprende anche “Silenzio e grida” (1968) e “L’armata a cavallo” (1968).

Ungheria, 1860. Dopo i moti del 1848 l’Austria ha ristabilito l’ordine sul territorio ungherese rintuzzando i vari tentativi di rivolta. Tuttavia, non ha estirpato tutte le anime rivoluzionarie che, silenziose, ancora si muovono all’interno del paese: soprattutto i militari che hanno seguito l’azione del patriota Sandor e che, proprio per questo motivo, sono stati definiti i “disperati” di Sandor.

Le forze austriache rinchiudono in un campo di prigionia un gruppo cospicuo di soldati al cui interno ci sarebbero, secondo indiscrezioni, numerosi componenti rivoluzionari. Allora con le minacce e false promesse le guardie cercano di corromperli li uni gli altri in modo da venire a sapere chi siano i ribelli. Con metodi sempre più subdoli e perspicaci gli austriaci si insinuano così nella mente dei ribelli cercando di farli confessare e di smascherare la loro appartenenza politica. In questo senso il finale regala un colpo di scena inaspettato.

La cinepresa di Jancso s’infiltra nelle menti dei prigionieri e non le lascia più fino alla fine della pellicola: le contorce, le inganna e le stritola come se il suo occhio fosse quello degli austriaci. Questi ultimi non sono dei carnefici spietati e violenti; anzi, si interfacciano con i prigionieri a volte anche con gentilezza, facendo leva sulla loro psicologia in modo più sottile e subdolo cercando, con i metodi più svariati, di metterli gli uni contro gli altri.

In questo senso, a volte, il film sembra quasi un lavoro di drammaturgia per l’intensità e la staticità dei singoli momenti: Jancso alterna benissimo l’intensità di silenzi, sguardi e primi piani in cui si condensano i pensieri dei rivoltosi che si muovono tra stati d’animo differenti, incapaci di capire se la cosa giusta sia assecondare la strana gentilezza degli austriaci cercando di ricavare un vantaggio personale oppure no. Alla fine, tutte le cortesie dei carnefici non sono altro che grandi trappole e piccoli ingranaggi di un piano che farà crollare le identità dei disperati di Sandor.

Jancso realizza, quindi, una sceneggiatura molto potente che ricorda i migliori drammi bergmaniani, ma lo fa con uno stile registico che, invece, sembra ammiccare a Karl-Theodore Dreyer. Soprattutto nel contrasto tra i volti, spesso in primo piano, e il biancore degli sfondi (il campo di prigionia sembra immerso in un grande spazio vuoto). Un contrasto, quindi, che restituisce lo spirito inquieto in cui si muovono le psicologie dei disperati, tra la tentazione di ingraziarsi le guardie per possibili favori e la volontà di restare fedeli alla causa rivoluzionaria anche a costo della vita.

Non manca poi un alone di mistero che aleggia su tutto il film: il famoso Sandor che viene nominato costantemente da prigionieri e guardie, e che sembra essere il grande oggetto del desiderio di queste ultime, viene appunto citato in lungo e in largo per tutto il film. Ma, alla fine, è l’unico personaggio che non compare mai: una sorta di Godot. Oppure la rappresentazione di uno spirito rivoluzionario che, spesso, può essere più idealismo che altro.

Tutto questo è “I disperati di Sandor“, una pellicola da rivedere e riscoprire, esempio del migliore cinema d’autore europeo degli anni Sessanta.

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