My Name is Joe Ken Loach

“My Name Is Joe”: la difficoltà di fare la cosa giusta, uno dei capolavori di Ken Loach

My Name Is Joe” (1998) è uno dei capolavori del regista britannico Ken Loach ed è anche una delle pellicole che meglio rappresenta il suo stile documentaristico di regia che mostra la realtà per quella che è, col massimo grado di realismo.

Joe (Peter Mullan) è un ex alcolizzato e disoccupato che sopravvive grazie a un sussidio e a qualche lavoretto in nero. Allena una sgangherata squadra di calcio del quartiere composta da sbandati, alcolizzati o drogati: Joe tenta di aiutarli facendoli uscire da quel vortice in cui lui stesso era sprofondato. Il titolo del film ammicca proprio a questo, ossia alla frase che si dice quando ci si presenta in un gruppo di alcolisti anonimi.

Joe, però, conosce Sarah che lavora nei servizi sociali, e si innamora di lei e della sua gentilezza. Anche Sarah si sente coinvolta e i due iniziano una relazione insieme che sembra dare tutta una nuova piega alla vita di Joe dandole un senso nuovo e una prospettiva completamente diversa, praticamente di rinascita. Tuttavia, sia Joe per affetto che Sarah per lavoro, seguono una giovane coppia disastrata: il giovane padre Liam, che gioca nella squadra di Joe, ha dei debiti onerosi che non potrà pagare con un boss locale e allora Joe per evitare il peggio decide di aiutare Liam assecondando le disoneste richieste dello strozzino. Tutto questo, però, farà solo precipitare la nuova prospettiva di vita che si era faticosamente creato.

My Name is Joe Ken Loach
Joe (Peter Mullan) e Sarah (Louise Goodall)

My Name Is Joe” è un film senza macchia, senza errori: è perfetto nella sua stretta aderenza con la realtà più viva. Non a caso solo gli attori principali sono professionisti; tutti gli altri sono stati presi dalla strada e nei pressi dei luoghi in cui sono state realizzate le riprese. E Loach è eccezionale nell’assecondare la sua vocazione registica: mostrare tutto com’è, senza omissioni. Un quartiere di Glasgow povero, pieno di vite difficili attanagliate da alcol e droga, in cui riuscire a crearsi una vita onesta e decorosa richiede uno sforzo immane (e poi, magari, non è nemmeno sufficiente).

La sceneggiatura è scritta dallo storico collaboratore di Loach, Paul Laverty, qui alla seconda collaborazione col regista britannico dopo “La canzone di Carla”. E, appunto, lo script è ineccepibile e narrativamente inappuntabile: valorizzato da una regia mai invadente, occhio costantemente presente ma silenzioso, che si limita a mostrare quello che vede senza mai giudicarlo o darne una propria visione edulcorata.

Queste cose e una storia che ti prende lo stomaco e te lo torce in più direzioni fanno di questo film uno dei capolavori di Loach, senza alcun dubbio. Quello che rimane, alla fine della visione, è un senso di impotenza davanti alle tante – a volte troppe prove – che la vita pone davanti a Joe, e quindi a tutti noi. Riuscire a fare sempre la cosa giusta è difficile e, come dimostra la vicenda di Joe, a volte probabilmente non c’è modo di farlo: si può solo scegliere cosa perdere e cosa trattenere.

Non ci sono quindi esiti consolatori: il pubblico sta fino alla fine dalla parte di Joe e crede fermamente nella sua storia di riscatto. Ma alcune cose sembrano semplicemente più grandi di lui e l’impressione è che, alla fine dei conti, non dipenda tutto da lui/noi. Tuttavia, il finale del film lascia un piccolo spiraglio aperto: quella speranza che serve a Joe e allo spettatore per andare avanti.

Il protagonista, inoltre, è interpretato da un ottimo Peter Mullan (già interprete di altri lavori di Loach) che, non a caso, è stato premiato a Cannes con il premio per l’interpretazione maschile.

My Name Is Joe” è un manifesto del cinema come mezzo di comunicazione incredibilmente empatico in grado di raccontare una storia.

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