“I Basilischi”: i vitelloni della Wertmuller intrisi di provincialismo

I Basilischi” (1963) è l’esordio alla regia di Lina Wertmuller e, già ad una prima occhiata, è evidente quanto questo film sia legato al mondo felliniano descritto ne “I vitelloni“. Senza dimenticarsi che la Wertmuller era già stata aiuto-regista di Fellini in “Otto e mezzo“.

Antonio, Francesco (un giovane Francesco Satta Flores) e Sergio sono tre ragazzi di un paesino tra Basilicata e Puglia che vivono alla giornata senza avere nessun impegno o obiettivo chiaro da portare a termine. Parlano di donne, cercano di adescarne qualcuna, si occupano a tempo perso della vita del circolo comunista, giocano a carte, fanno qualche baruffa con i genitori e poco di più. Le giornate si susseguono così senza particolari variazioni.

Sono tre personaggi mossi da nient’altro che l’inerzia, profondamente e ormai inevitabilmente legati al provincialismo che si crea nei paesini lontani dalle grandi città. La ristretta vita del paese gira tutto intorno ai piccoli pettegolezzi e alle cose che, per quanto banali, escono dalla piatta quotidianità delle giornate cosicché tutti sanno tutto di tutti. E allora, in questa realtà, si parla tanto di evadere e di abbracciare prospettive più ampie, ma alla fine si è talmente radicati a quel mondo da non riuscire mai a distaccarsene.

Ad un certo punto sembra che uno dei tre, Antonio, possa davvero uscire da quella realtà. Una zia che abita a Roma, infatti, lo porta con sé nella Capitale per un po’ di tempo, proponendogli di spostare la sua sede universitaria da Bari alla città eterna. Antonio, allora, torna dopo qualche settimana nel suo paese dicendo che il giorno dopo sarebbe però ripartito per Roma. Tuttavia, non avviene niente di tutto questo: Antonio continua a rimandare e, alla fine, non si muoverà più da lì.

In questo senso, i basilischi non sono altro che una variazione dei vitelloni: personaggi inerti che non riescono mai a dare una svolta alla loro vita nonostante ripetano che vorrebbero farlo. La differenza è che nel film felliniano lo sfondo è la capitale, per cui la vita è decisamente più mondana e ricca di attrattive: uno scenario in cui si muove quel dandy sfaccendato spesso al centro anche di numerose opere letterarie.

Lo spazio in cui si muovono i personaggi della Wertmuller, invece, è molto più ristretto e bigotto. Se possibile anche più cupo e quindi tragico: ne “I vitelloni” rimaneva sempre una forte ironia che copriva e faceva dimenticare lo sfacelo che era presente dietro il vuoto della vita dei personaggi presenti sullo schermo.

I basilischi W

Questa ironia non c’è ne “I basilischi” dove la vuotezza delle esistenze dei personaggi è lampante allo spettatore che non vede mai una via di sbocco per i tre amici che bighellonano per le viuzze del borgo. E allora tutta la drammaticità di questa realtà asfissiante e divorante emerge con tutta la carica emotiva possibile nella scena finale con cui un’anziana si butta da un balcone. Ma per sottolineare ancora come nulla cambi nel paese, la Wertmuller chiude il film con i soliti discorsi disillusi, ma senza vigore dei tre giovani che fanno la vita di sempre.

In tutto questo emerge una regia poco invasiva, ma molto attenta a seguire i ritmi compassati e inerti della storia che opta anche per scelte registiche molto interessanti come i campi lunghi delle vie in cui si muovono i protagonisti facendo perdere e girovagare la macchina da presa tra le vie e le scalinate del paesino come nell’inseguimento di Francesco nei confronti della ragazza che vorrebbe adescare.

Un film che, rivisto a distanza di ormai 60 anni, con le dovute differenza può considerarsi ancora profondamente attuale per la descrizione di una dimensione provincialistica che tutt’oggi è presente.

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