“Notorious” (1946) è uno dei capolavori universalmente riconosciuti del grande Alfred Hitchcock.
Protagonista del film è Alicia (una stupenda Ingrid Bergman), figlia di una spia tedesca che si è suicidata in carcere dopo essere stata condannata a vent’anni di reclusione. Alicia è una democratica e così viene contattata dai servizi segreti americani, in particolare da Devlin (Cary Grant, al suo secondo film con il regista britannico), per infiltrarsi all’interno di un complotto nazista in Brasile, a Rio de Janeiro.
Alicia tentenna, ma poi accetta quello che gli viene chiesto. Nel frattempo però tra lei e Devlin nasce una storia d’amore mai dichiarata apertamente da lui e tristemente rinnegata dietro ai doveri che lo legano alla sua professione. La missione di Alicia va nel migliore dei modi possibili: uno dei tedeschi si innamora di lei e le chiede di sposarlo. Lei accetta in modo da poter portare a termine ancora più compiutamente lo spionaggio che le è stato chiesto, tuttavia il rischio di essere scoperta è sempre più alto e Devlin è preoccupato per quello che le può succedere.
Per parlare compiutamente di questo film in tutte le sue sfumature ci vorrebbero pagine e pagine, per cui ci limitiamo a mettere in evidenza quelli che per noi sono gli elementi più interessanti della pellicola.

Innanzitutto è difficile dire con sicurezza quale sia il genere preciso di appartenenza del film: in apparenza è un noir, o meglio un film di spionaggio, anche se è nettamente presente anche il filo narrativo della storia d’amore tra Alicia e Devlin. Per cui si può parlare anche di commedia sofisticata, creando quindi un doppio filone in cui, però, lo sfondo sempre costante è quello dello spionaggio che si può considerare quindi il genere preponderante tra i due.
Per struttura narrativa il film è un vero e proprio capolavoro: la storia non ha alcun buco di sceneggiatura e non c’è nulla che possa interrompere o far dubitare riguardo la verosimiglianza della vicenda. Non manca poi il solito effetto MacGuffin alla Hitchcock, ovvero quello snodo narrativo che altro non è che uno specchietto per le allodole: in questo caso la bottiglia di vino riempita d’uranio. Il filone narrativo legato alla bottiglia e quindi alla costruzione di una ipotetica bomba atomica poi non viene più esplorato, lasciando spazio alla storia d’amore tra i due protagonisti.
L’ultima mezzora, poi, è praticamente una masterclass di regia. Incredibile il modo in cui Hitchcock riesce a trasmettere suspense allo spettatore sfruttando i movimenti della macchina da presa. In questo senso è emblematica la scena della chiave: la Bergman la vede su un tavolo, ma deve stare attenta al marito filonazista che è dietro la porta (la suspense è data dalla sua ombra e dalla sua voce fuoricampo). La macchina da presa, allora, si muove verso la chiave, ma poi vediamo la Bergman ferma che deve quindi rifare da capo quel percorso (prima è come se lo avesse fatto solo con la mente): così il pubblico è costretto a fare quel movimento ricco di tensione verso la chiave per due volte. Dopo averla ottenuta, la macchina da presa seguirà ancora a lungo la chiave con dei precisi e mirati primi piano finché non giunge sana e salva nelle mani di Cary Grant.

La stessa si potrebbe dire della scena della festa da ballo quando Hitchcock, a più riprese, mostra le bottiglie dello champagne; lo spettatore sa che non devono terminare per fare in modo che il piano di Grant e della Bergman non venga smascherata, così è spinto a preoccuparsi costantemente vedendo che diminuiscono sempre di più. E così via.
Si potrebbe parlare per ore di questo film, ma speriamo di avervi dato almeno un’idea e qualche motivo per vederlo. Probabilmente si tratta di una delle migliori prove registiche nella storia del cinema per utilizzo dei mezzi a disposizione.
Un capolavoro senza tempo e una pellicola perfetta per chi volesse imparare a fare cinema.
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