“Come in uno specchio” (1961) è uno dei numerosi capolavori del maestro svedese Ingmar Bergman. Vincitore del premio Oscar come miglior film straniero nel medesimo anno, la pellicola è il primo film della cosiddetta trilogia religiosa insieme a “Luci d’inverno” e “Il silenzio“.
Si tratta di uno dei drammi più potenti e intensi di Bergman che si innesta profondamente sulla grande interrogazione religiosa che ha sempre assillato il regista svedese fin dalla giovane età, essendo il figlio di un pastore protestante.
La trama è molto semplice. Gli sposi Martin (Max von Sydow) e Karin sono in vacanza sull’isola di Faro insieme al padre e al fratello minore di lei, Minus e David. Tutto il film gira intorno a questi quattro personaggi e alla messa a nudo delle loro più intrinseche fragilità. Queste ultime vengono alla luce attraverso la figura di Karin che viene da una profonda malattia mentale da cui sembra parzialmente guarita, ma che, in realtà, è insanabile e già pronta a riaffacciarsi.
Attorno a lei c’è appunto il marito Martin, un medico semplice e molto legato alla moglie, che però si vede sempre di più scivolare via da lei senza possibilità di trattenerla e di salvarla dalla sua malattia. Una malattia aggravata anche da un rapporto complesso e difficile con un padre romanziere che non c’è quasi mai stato per i loro figli, molto chiuso in sé stesso e molto cinico nel dialogo con i figli stessi. Il giovane Minus soffre molto questo rapporto mancato con il padre e lo si nota anche dalla volontà che ha di emulare le gesta artistiche del padre (tant’è che alla fine si stupirà di aver avuto un dialogo col padre stesso); per di più la malattia della sorella lo influenza molto direttamente provocando anche in lui una forma di depressione.

Quattro personaggi alla deriva tutti divorati da una realtà che non sembra avere motivi di felicità. Tra “colpevoli” (il padre David è in gran parte responsabile della condizione psichica precaria dei figli), “vittime” (Karin e Minus appunto) e chi non può fare nulla per cambiare le cose (Martin). Martin, infatti, sarebbe l’anima buona del quartetto, ma non ha la forza mentale e il vigore per sostenere la moglie e il fratello di lei, sprofondando anche lui in una triste resa.
Un senso di grande disagio mentale impregna quindi tutta la pellicola: un disagio perfettamente incarnato da Karin (interpretata da una sontuosa Harriet Andersson) nel suo dialogo con voci sconosciute e divine, e nei suoi sempre più frequenti momenti di follia.
Tuttavia, il finale del film sembra dare un barlume di speranza. Il cinico David rivela al figlio che in tutto questo ci può essere qualcosa a cui appigliarsi, all’Amore inteso come manifestazione di Dio. Non è una certezza, appunto, ma una speranza; la stessa a cui sembra volersi aggrappare anche lo stesso Bergman in un dialogo fitto e mai concluso con la religiosità che investe anche i capitoli successivi della trilogia.
Bergman realizza con questo lavoro uno dei suoi drammi migliori attraverso delle scelte registiche semplici ma efficaci: narrativamente lascia tutto scorrere attraverso i dialoghi e i silenzi senza affidare nulla a salti narrativi e temporali come i flashback (usati per esempio ne “Il posto delle fragole“). Tutto viene lasciato alla forza delle sceneggiatura (magistralmente scritta) e all’intensità delle immagini con l’uso dei primi piani stretti che rimandano allo stile di un altro profondo conoscitore dell’animo umano come Karl Theodore-Dreyer.
Grazie al grande direttore della fotografia Sven Nykvest, poi, i personaggi sono scavati con una luce tagliente e introspettiva che mette a nudo quelle anime così fragili.
Il film, inoltre, è stato realizzato interamente sull’isola di Faro, scelta appositamente per questo lavoro e poi talmente adorata da Bergman da renderla il suo rifugio di una vita.
Ecco servito un altro capolavoro senza del tempo del regista svedese.
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