“Teorema” (1968) è uno dei film più atipici della filmografia di Pier Paolo Pasolini. Rivederlo nel 2022 non è sicuramente qualcosa di semplice e alla portata, anzi è un’esperienza che potrebbe suscitare più di qualche perplessità.
Ma perché possa essere ben valutato, il film deve essere profondamente riportato al suo contesto originario – e già allora poteva essere percepito con diffidenza, per intenderci.
“Teorema” può essere considerato insieme a “Porcile” un dittico in cui Pasolini vuole mettersi alla prova cercando di realizzare un saggio critico sulla società a lui contemporanea tramite il medium cinematografico. Non a caso di “Teorema” c’è anche una versione scritta, appunto a metà tra copione e saggio vero e proprio. Da questo presupposto nasce la difficoltà di visione della pellicola.
La trama è molto semplice (almeno in partenza). Un giovane misterioso viene ospitato da una famiglia industriale milanese nella loro sontuosa villa. Questo ragazzo (un giovane Terrence Stamp) sconvolge la vita della famiglia con i suoi costumi moderni e libertini intrattenendo anche rapporti erotici con quasi tutti i membri famigliari. Gli equilibri ipocriti e di maniera di un nucleo benestante del tempo vengono così completamente sradicati e stravolti.
Quando il misterioso ospite se ne va, ormai ogni membro della famiglia è smarrito e non sa più ritrovare l’equilibrio sociale posseduto in precedenza. Allora il figlio scappa di casa e diventa pittore, la figlia diventa praticamente catatonica, la madre (una splendida Silvana Mangano) intrattiene rapporti sessuali con giovani ragazzi, la serva riceve una sorta di chiamata divina e il padre lascia l’azienda per spogliarsi in mezzo alla stazione centrale.

E’ un film, come già si può intendere dalla trama, scandaloso e molto ardito per quelli che sono gli standard degli anni Sessanta. La pellicola, infatti, ha dovuto subire tanti processi giudiziari prima di poter avere via libera sul mercato cinematografico in relazione alle numerose scene (ma nemmeno così esplicite a dire il vero!) di carattere sessuale.
Il messaggio di fondo che Pasolini vuole trasmettere è quello legato a una classe dirigente in balia di sé stessa, profondamente a pezzi dietro una facciata rassicurante e composta. In realtà la borghesia del tempo nasconde numerosi stimoli repressi e, in generale, un’auto-inibizione pressoché totale. Perciò, quando questo tipo di soggetto viene incoraggiato e messo a nudo davanti alle sue fragilità, perde la sua identità e rischia di smarrirsi dentro il labirinto della psiche tra la pulsione naturale e quella imposta da un certo tipo di ordine sociale (ormai troppo radicato per essere combattuto). E allora l’esito naturale di questo cortocircuito non può che essere, come la seconda parte del film mostra, l’autodistruzione insieme a uno smarrimento completo.
Pasolini racconta proprio questo nella seconda parte del film che è quella nettamente più ostica per la visione, dato che praticamente è assente ogni tipo di funzione narrativa. Proprio per questo un pubblico del 2022 potrebbe trovare estremamente articolata la comprensione di questo film: sono ritmi e anche generi che oggi sono praticamente estinti (anche in virtù di una certa fruizione del tempo sociale che è completamente diversa).
Nella difficoltà generale di ricezione, però, non devono sfuggire alcuni elementi veramente interessanti. Alcune scene sono registicamente molto forti e icastiche: la sepoltura da viva della serva e la camminata nel deserto (quasi evangelica) del padre di famiglia in seguito alla svestizione, per esempio.
Poi ci sarebbero altre cose da sottolineare come un montaggio parallelo che funziona bene, il ruolo delle musiche, le riflessione sulla fede e altri temi, e così via.
La risultante finale ci lascia un lavoro interessante e – come spesso accade con Pasolini – molto comunicativo, ma anche di difficile fruizione. E’ un film strettamente figlio del suo tempo e andrebbe visionato in quell’ottica. Come qualcuno potrebbe dire: più facile a dirsi che a farsi.
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