Il giardino di limoni

“Il giardino di limoni”: la salda resilienza delle radici

Lemon tree, in italiano “Il giardino di limoni”, titolo parzialmente fedele all’originale, è un film uscito nel 2008 e diretto da Eran Riklis che ha partecipato al Festival di Berlino dello stesso anno vincendo il Premio del Pubblico. Il regista israeliano era già abbastanza conosciuto, in quegli anni, grazie al suo precedente successo dal titolo “The Syrian bride del 2004, distribuito in tutto il mondo e vincitore di 18 riconoscimenti internazionali.

I suoi film si mostrano profondamente calati nella realtà israeliana dalla quale lo stesso regista proviene: ne vengono descritte in modo essenziale e realistico le contraddizioni, le tensioni e i grandi valori che la abitano. Nonostante l’ambientazione e il respiro di questi film siano circoscritti a un determinato popolo e alla sua cultura, le storie e i sentimenti che ne muovono l’agire sono universali e rendono immediata e inevitabile una forte compartecipazione da parte del pubblico.

Il film in questione, appunto, si inquadra nel contesto del conflitto israelo-palestinese che rimane, purtroppo, un tasto dolente della nostra attualità. Il regista ci introduce all’interno delle dinamiche che animano questo contrasto presentandoci un punto di vista insolito, tratto dal basso: quello di una vedova palestinese il cui unico mezzo di sussistenza è un limoneto lasciatole dal padre, di cui lei stessa si prende cura servendosi dell’aiuto di un unico anziano contadino, collaboratore della sua famiglia da quando era ancora bambina.

Il giardino di limoni

Le poche sicurezze che avevano mantenuto in vita la donna iniziano a vacillare nel momento in cui il ministro della difesa israeliano decide di costruire la sua nuova dimora sul confine cisgiordano, in un terreno confinante proprio con il suo limoneto. Le misure di sicurezza obbligano a farne una struttura blindata e costantemente monitorata e il giardino di limoni inizia ad essere considerato come un pericolo, prestandosi, con la sua estensione rigogliosa, a futuri agguati e potenziali attacchi terroristici rischiosi per la vita del ministro e della sua famiglia. Così, seguendo le indicazioni degli organi preposti alla sicurezza, quest’ultimo ordina l’immediato sradicamento degli alberi.

Qui prende avvio la tenace battaglia della donna che, pur vedendosi riconosciuto un risarcimento in denaro, non intende sottostare alla distruzione dell’unica cosa che le è rimasta, di quelle radici che sono parte della sua infanzia, della sua famiglia e a tutto ciò che ha già perso. Appoggiata da un giovane e competente avvocato, Ziad Daud, intraprende una battaglia legale dura e controversa che, nel tempo, diventerà il simbolo mediatico dello scontro ideologico fra i due mondi. Dopo aver sofferto la morte dei propri familiari e di un marito, di cui probabilmente non era innamorata, Salma trova conforto nella figura di Ziad e con lui stringe un legame profondo e puro ma, anche qui, si vedrà ostacolata e giudicata dalle freddezze della società della quale fa parte.

Lo spunto narrativo è tratto da una vicenda realmente accaduta nei primi anni del 2000 che vede come protagonista un’agricoltrice cisgiordana, Salma Zidane, il cui limoneto venne raso al suolo per volere del ministro Shaul Mofaz, nonostante il ricorso di questi alla Corte Suprema d’Israele.

Le parole di questo film appaiono cadenzate, misurate, tanto quanto lo sono i suoi silenzi. Particolare è il rapporto di tacito supporto che si instaura fra Salma e la moglie del ministro Navon, Mira, sua vicina e, apparente, nemica. Quest’ultima appare, invece, succube del sistema di cui fa parte e, tanto quanto la protagonista, si ritrova a fronteggiare le insidie della propria solitudine e dell’incomprensione. La sua sensibilità la porta a soffrire le prepotenze che il suo stesso marito si sente legittimato a infliggere e progressivamente se ne dissocia, sentendosi sempre più vicina alla causa della donna. Attraverso queste due figure femminili il regista mette in risalto il divario fra i due mondi di provenienza delle donne: quello palestinese povero e arretrato e quello israeliano di gran lunga più avanzato ma allo stesso tempo simili nell’individualità delle sensazioni.

Dettagliate sono le scene della raccolta dei limoni e della lavorazione casareccia che ne viene fatta: la sceneggiatura palpita di queste immagini estremamente semplici e quotidiane che donano un calore particolare alla vita dura e fatta di stenti che la protagonista ha dovuto affrontare.

Un film assolutamente consigliato, che condensa le dinamiche di un mondo estremamente umile, incarnato in personaggi il cui spessore sociale sembra essere irrilevante ma che non mancano di far sentire la loro voce, anche quando appare inutile farlo, mossi da quella ruggente inclinazione alla resistenza che emerge per la salvaguardia dei grandi ideali e della propria identità.

Luisa Di Lieto

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