Titane Ducournau

“Titane”, un film disturbante che mette spalle al muro lo spettatore

La visione di “Titane“, secondo film di Julie Ducournau e Palma d’oro al Festival di Cannes 2021, non è qualcosa di semplice e rasserenante: implica una resistenza alle immagini e ai significati notevole.

Dalla critica negativa è stato spesso battezzato come il film in cui la protagonista rimane incinta di un automobile (una Cadillac, per la precisione) dopo aver avuto un amplesso con essa. Tutto questo avviene, ma è forse una delle scene meno interessanti dell’intera pellicola.

Infatti la prima parte del film (i primi 30/40 minuti) sono quelli anche di più difficile visione estetica (non concettuale) in cui la protagonista Alexia (interpretata da una strabordante Agathe Rousselle) esprime il suo feticismo per le automobili e si qualifica per essere una pluriomicida, in scene in cui non viene lesinata nessun tipo di violenza.

Poi la pellicola cambia di molto la sua prospettiva andando verso la parte migliore del film. Alexia fugge come ricercata dopo gli omicidi commessi e si ritrova ad essere scambiato per un maschio, figlio di un capitano dei pompieri in evidente stato di alterazione mentale. Qui entra in scena quella che è la sindrome dell’impostore con Alexia che diventa progressivamente Adrien e con un rapporto Padre e Figlio che diventa sempre più intenso e reale col passare dei minuti (emozionante la scena di ballo fra i due).

La presenza di Alexia/Adrien nel mondo dei pompieri è anche uno schiaffo a un mondo maschilista e corpulento: in questo senso è emblematico la scena in cui lei/lui danza sopra un camion con avvenenti pose femminili mettendo in imbarazzo tutti i giovani compagni maschi che sono presenti.

Ma quello che colpisce è l’evoluzione di questo rapporto Padre/Figlio tra una ragazza incinta (di un automobile) che è fuggita dai propri crimini e un uomo che ha perso la ragione e a cui serve solo qualcuno da accudire e da avere accanto per sentirsi responsabilizzato.

Tra i due si crea un legame di una intensità clamorosa – anche dopo essersi riconosciuti come sconosciuti, cioè dopo avere svelato realmente le carte – perché riconoscono l’enorme fragilità dell’altro e si specchiano in essa reciprocamente.

Tutto ciò deve essere chiaro, senza dimenticarsi del figlio che Alexia sta avendo. Ma il Padre (un bravissimo Vincent Lindon) accetta anche quello, un bambino con la spina dorsale di lamiera, e si ripromette di prendersi cura di lui come del resto ha promesso lo stesso anche ad Alexia.

Questo film vuole spingere lo spettatore oltre gli stereotipi, la solita narratività e il solito modo di fare/vedere cinema e le cose in generale. La lamiera e l’anormalità ci sono davanti tutti i giorni, basterebbe solo non ignorarle e fare finta che non ci siano. Già sarebbe una conquista: accettarle e accoglierle poi sarebbe il passo successivo.

Ducournau, con uno forza espressiva straripante e un coraggio proverbiale, ci mette davanti a tutte queste cose e lo fa senza addolcire nulla, ma anzi spingendo quanto più possibile sull’acceleratore in modo che lo spettatore non abbia mediazioni e si veda sbattuto in faccia ogni tipo di sequenza.

Titane” non è un film perfetto, ma è un film lucido e visionario come pochi. Non ha vinto la Palma d’oro per chissà quale ragione di tipo sociale o commerciale: l’ha vinta perché pone domande scomode con uno stile scomodo.

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