“Alcarràs”, il secondo film della regista Carla Simòn dopo “Estate 1993”, che ha vinto l’Orso d’oro all’ultima edizione della Berlinale, è un film che funziona, figlio della più radicata tradizione europea.
La trama vede al centro una famiglia contadina che vive con la raccolta delle pesche nel piccolo paese catalano di Alcarràs. Tuttavia, i terreni utilizzati dalla famiglia per la coltivazione in realtà appartengono agli agiati Pinyol. Questi ultimi avevano avuto rifugio durante la Seconda Guerra Mondiale presso la famiglia protagonista del film e in cambio avevano dato loro un consistente pezzo di terre. Però di quel patto non è rimasta prova scritta e allora i Pinyol rivendicano i terreni per riconvertirli in pannelli solari e quindi ottenere ulteriore profitto monetario: tutto questo senza il minimo interesse per il fatto che la famiglia al centro del film si troverà così senza terreni e senza lavoro. Tutta la pellicola si muove nel tempo rimasto ai protagonisti prima che perdano praticamente tutto.
Quelle terre per loro, infatti, oltre che essere la prima fonte di lavoro, rappresentano anche un legame intenso e diretto con la loro identità, profondamente radicata tra quei peschi. Intorno a questa macro-trama, poi, si innestano tutte le tensioni presenti all’interno della famiglia (tra un nonno inerme, un capofamiglia burbero, una forte presenza femminile e l’innocenza dei bambini) e anche la protesta sociale degli agricoltori che rivendicano la loro importanza all’interno del sistema lavorativo.
Simòn racconta tutto questo senza alcuna fretta, ma anzi indugiando su quella natura tanto affine ai protagonisti e sui silenzi che spesso si generano tra i personaggi, andando a scavare dentro un’insofferenza radicata che non aspetta altro che esplodere (soprattutto nei rapporti tra cognati e tra padre e figlio). La narrazione, quindi, scorre molto lentamente privilegiando quei tempi allungati tipici del cinema europeo.
La mano della regista di Barcellona funziona soprattutto dal momento che il suo sguardo sulla vicenda non guarda con vittimismo o compassione le difficoltà dei suoi personaggi: quello che a lei interessa è solamente dipingere le cose così come sono, in tutta l’estrema prosasticità del mondo contadino che viene fuori nell’imperfetta bellezza dei suoi scorci. La forza della macchina da presa sta proprio nella capacità di muoversi molto bene tra questi due poli: il ritratto fedele del mondo agricolo e la cattura delle vibrazioni famigliari.
A conferma di quanto detto è emblematico il finale del film che rinuncia ancora una volta a dare risposte chiare e nette preferendo rimettersi all’evidenza delle cose, così come sono. Né idilliache né nerissime: semplicemente reali
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